Con la sentenza n. 20335/2018 la Cassazione, condividendo le conclusioni formulate dalla Commissione disciplinare del CSM, ha respinto il ricorso di un sostituto procuratore che era stato sanzionato (con la perdita di due mesi di anzianità) per violazione degli artt. 1 e 2, D.Lgs n. 109/2006, per non essersi attivato adeguatamente in relazione ad un caso di violenza su una donna, degenerato poi in femminicidio.
In particolare, il procuratore in questione, dopo i diversi episodi di aggressione denunciati dalla donna (tre in quattro mesi), si era limitato ad avvisare l’indagato della chiusura delle indagini preliminari “non curandosi affatto (rispetto al secondo episodio) dell’esigenza cautelare espressa dalla P.G., persistendo nel descritto atteggiamento trascurato e rinunciatario, omettendo anche in questo caso di adottare qualunque iniziativa“, lasciando di fatto la vittima alla mercé del proprio carnefice.
La Cassazione ha condiviso quanto evidenziato dall’organo disciplinare per il quale il magistrato avrebbe dovuto informare il procuratore aggiunto e il collega a cui era stato assegnato il fascicolo e sollecitare l’adozione della misura cautelare più gravosa della custodia in carcere al posto di quella degli arresti domiciliari (visto, peraltro, che in quella Procura era presente un pool volto a contrastare proprio i casi di violenza perpetrata all’interno della famiglia).
Anche ammesso che non fosse spettato al procuratore sanzionato il dovere di disporre misure cautelari, questi avrebbe in ogni caso potuto e dovuto sollecitarne l’adozione, tenuto conto dell’estrema rilevanza degli interessi coinvolti e della gravità del caso sottoposto al suo esame, caratterizzato da un pericolo concreto e crescente per l’incolumità della vittima.
Al magistrato – ha tuonato la Cassazione – non spetta “una burocratica osservanza di regole formali” ma egli è tenuto ad attivarsi al fine di tutelare, al di là di queste, i valori tutelati dall’ordinamento.
Speriamo che tutto ciò non rimanga lettera morta.